
Nel mondo del lavoro, nei media, nella sanità e nella vita quotidiana, esiste una forma di discriminazione tanto subdola quanto diffusa: l’ageismo. Si tratta di un pregiudizio fondato sull’età, che può colpire sia giovani che anziani, anche se i dati mostrano che a farne maggiormente le spese sono le persone sopra i 50 anni.
Cosa significa “ageismo”
Il termine “ageismo” fu coniato nel 1969 dal gerontologo statunitense Robert Butler, per descrivere la discriminazione sistemica contro gli anziani. Oggi il concetto include anche gli stereotipi che colpiscono i giovani, considerati inesperti o poco affidabili.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), una persona su due nel mondo ha pregiudizi legati all’età, rendendolo uno dei bias più comuni e trascurati a livello globale.
Lavoro: l’età come ostacolo invisibile
In Italia, secondo un’indagine ISTAT del 2023, quasi il 30% degli over 55 ha dichiarato di aver subito discriminazioni sul lavoro a causa dell’età. Le aziende spesso preferiscono profili più giovani, considerati più “flessibili” e “formabili”, trascurando l’esperienza e le competenze dei lavoratori maturi.
Francesca, 58 anni, ex responsabile amministrativa in un’azienda milanese, racconta: “Dopo la chiusura della mia azienda, ho inviato oltre 150 curriculum. Le poche risposte ricevute sembravano già sapere la mia età prima ancora di leggere il mio profilo. Mi sono sentita invisibile”.
Anche i giovani però non sono immuni. Il 35% degli under 30 italiani riferisce di non essere preso sul serio in ambito professionale per “mancanza di esperienza”, indipendentemente dalle reali qualifiche.

Ageismo in sanità: quando l’età incide sulle cure
Nel settore sanitario, l’ageismo ha conseguenze ancora più gravi. Uno studio pubblicato su The Lancet Healthy Longevity (2022) ha rilevato che i pazienti anziani ricevono meno spesso diagnosi tempestive e cure aggressive, anche quando la loro condizione clinica lo permetterebbe.
Giovanni, 73 anni, racconta la sua esperienza: “Mi avevano detto che l’intervento al cuore era rischioso ‘alla mia età’. Solo insistendo con un secondo parere ho avuto accesso a un’operazione salvavita, perfettamente riuscita”.
Media e società: la dittatura della giovinezza
La cultura occidentale promuove un’idea idealizzata della giovinezza, relegando l’invecchiamento a un tabù da combattere con cosmetici, diete e chirurgia estetica. Secondo un’analisi della University of Southern California, solo il 1,5% dei personaggi in film di Hollywood ha più di 60 anni, e spesso ricopre ruoli stereotipati: malati, burberi, fragili.
Eppure, esempi virtuosi non mancano. In Giappone, la figura dell’anziano è rispettata come fonte di saggezza; in alcune aziende italiane si stanno sperimentando programmi di mentorship intergenerazionale, in cui senior e junior lavorano insieme valorizzando le reciproche competenze.
Verso una cultura dell’inclusione generazionale
Contrastare l’ageismo richiede un cambiamento culturale profondo. Significa smettere di associare automaticamente età ad (in)capacità e cominciare a valorizzare la diversità delle esperienze. Significa riformare il mercato del lavoro, investire in formazione continua a tutte le età e combattere gli stereotipi nei media e nella pubblicità.
In un mondo che invecchia — entro il 2050 oltre il 30% della popolazione europea avrà più di 60 anni — abbattere l’ageismo non è solo una questione etica, ma una necessità sociale ed economica.